Fenomeno strutturale di riduzione dei flussi finanziari intermediati dal sistema bancario, in atto su tutti i mercati mondiali a partire dai primi anni ‘80.

Per quanto riguarda il caso italiano, il processo è   risultato  molto   esteso   a causa   dell’alto  grado   di   iper intermediazione  che  aveva caratterizzato il periodo di applicazione della politica bancaria indotta dalla legislazione del 1936 e avvertibile tanto dal lato dei depositi che da quello degli impieghi.

Relativamente al primo aspetto, la disintermediazione è dipesa dalla comparsa e dallo sviluppo di forme di risparmio (borsa, fondi comuni, titoli atipici, gestioni fiduciarie, assicurazioni vita e, in modo particolare, titoli di Stato) alternative alle tradizionali passività bancarie e al conseguente drenaggio di fondi dal  sistema   creditizio.

In   termini   quantitativi,  l’incidenza dei depositi  bancari  sul   totale   delle attività finanziarie delle famiglie è scesa dal 50% della metà degli anni Settanta, livello raggiunto grazie alla concomitanza di fattori contingenti quali l’elevato tasso di inflazione e la crisi del mercato   obbligazionario,   a   meno   del   28%   nel   1988,   mentre   il   peso   dei   titoli   è corrispondentemente  aumentato.

Lo   spostamento   delle  preferenze   dei   risparmiatori   verso   i valori mobiliari rispecchia il fatto che negli anni Ottanta la struttura del mercato finanziario si è arricchita di una molteplicità di strumenti che hanno reso il mercato italiano più simile a quello degli altri paesi industrializzati.

In tale periodo, infatti, sono stati immessi nel mercato strumenti quali  il certificato   di   deposito,  oltre   che,   per   iniziativa   di   un   settore   pubblico   pressato   da crescenti   esigenze   di copertura   del   proprio   fabbisogno,   titoli   –   caratterizzati   da   forme   di indicizzazione diversa quali i CCT, i CTE e i CTR.

La disintermediazione bancaria si è pertanto caratterizzata per una progressiva sostituzione di titoli pubblici ai depositi bancari nel portafoglio dei   risparmiatori,   a   differenza   di   quanto   avvenuto   negli   altri   sistemi   economici   dove   si   è riscontrata una rilevante sostituzione anche da  parte  di titoli  privati.

Dal lato degli  impieghi, invece, il processo di disintermediazione si ricollega, da un lato, alla crescita del ricorso diretto da   parte   delle   imprese   al   mercato   dei   capitali,   dall’altro   allo   sviluppo   del   comparto dell’intermediazione   finanziaria   non   bancaria   (leasing; factoring; credito   al consumo; merchant bank).

La raccolta diretta di fondi, tuttavia, pur facilitata dal manifestarsi favorevole   di   fattori   quali   l’evoluzione   dell’attività   dei   mercati   finanziari   e   degli   investitori istituzionali, rappresenta una soluzione non accessibile a tutte le imprese indiscriminatamente, risultando in genere subordinata al possesso di determinati requisiti, sia nell’emittente che nelle caratteristiche dei titoli.

Per tali motivi, la riduzione dell’esposizione del mondo industriale nei confronti del sistema bancario risulta circoscritta alle imprese maggiori, mentre nel settore delle piccole  e  medie imprese  l’attività  continua a svolgere una  funzione  primaria; tale tendenza, inoltre, sembra incontrare un limite inferiore dipendente dalla non perfetta fungibilità tra prestiti bancari ed emissioni   obbligazionarie  ed  azionarie.

Il  fenomeno  della disintermediazione  dei circuiti bancari ha innescato nelle banche un profondo ripensamento della natura delle proprie attività e, conseguentemente, delle proprie strutture organizzative, oltre che un arricchimento qualitativo di capacità e risorse professionali. Ne è scaturito l’affiancamento alla tradizionale attività di corporate banking di un mix di servizi ad elevato valore aggiunto ed aventi contenuto consulenziale e innovativo (p.e., servizi relativi al collocamento e alla negoziazione di titoli per conto della clientela).

Ulteriori problematiche sono sorte in merito alla mutata fisionomia dei conti economici e, segnatamente, al crescente contributo dei ricavi da servizi (commissioni) rispetto ai margini d’interesse.